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Il Poggiolo è un sito antico. Non si conosce a quando risalgano i primi insediamenti e gli edifici del Poggiolo. Antica frazione del comune di Dernice (Darnisium), accanto all’abitato di Vigoponzo (Vicus Pontius), citato già nel 865 per la presenza di un Monastero. Per secoli abitato da una piccola comunità contadina.
Una vita grama, una economia di sussistenza sulla poca terra nell’alta Val Borbera. A poca distanza da una importante via del Sale, quella che risaliva la Val Curone e scendeva poi la Val Borbera e la Val Vobbia verso il mare. Attraversata dalle carovane dei mercanti che trasportavano merci tra Genova e la pianura padana.
Con l’apertura nel 1828 della carrozzabile dei Giovi, ideata da Napoleone e realizzata dai Savoia, i traffici abbandonano queste valli che da allora rimangono isolate dai flussi mercantili e turistici e conservano ancora intatto il fascino di quei tempi lontani.

La Storia ha spesso sfiorato la piccola comunità del Poggiolo: I Feudi Imperiali, le guerre tra il ducato di Milano e quello di Genova e infine la guerra partigiana tra il 1943 e il 1945. Poco distante dal Poggiolo si consuma uno degli episodi più tragici di quella guerra. La fucilazione, il 15 settembre del 1944,  di 29 giovani militari della Repubblica di Salò, travestiti da partigiani e fermati al Pertuso durante un tentativo di infiltrazione tra le formazioni partigiane. Quindi sul Poggiolo cala l’oblio. Negli anni ‘50 gli ultimi abitanti lasciano le povere case. I rovi e la natura si riprendono il possesso dei campi e degli edifici.
Rimangono pochi ricordi sugli ultimi abitanti. Il più commuovente è quello di Giacomino il cieco, raccontata da Federico Buscaglia . Quando, nel 2010, visitiamo per la prima volta il Poggiolo, restiamo affascinati dalla bellezza del luogo e dal fascino di quei muri di pietra, cadenti ma costruiti con una maestria ormai perduta irrimediabilmente.
Il desiderio di provare a ridare vita a quel luogo speciale supera le difficoltà che l’impresa presenta. Difficoltà di ogni ordine e grado: progettuali, economiche, costruttive.
Perché una cosa ci era chiara: Quel luogo andava conservato e amorevolmente restaurato. Tentando di salvare le strutture i vecchi muri non ancora crollati.
Ci sembrava un dovere verso la bellezza del luogo e verso tutti coloro che avevano vissuto al Poggiolo  una esistenza di sofferenze e di gioie.


“Chiunque abbia visitato Delfi o Olimpia, ma anche lo Heraion di Argo o il tempio di Basse, o anche Epidauro o Dion, o Trezene o Messene o il santuario di Perachona o Dodona, o innumerevoli altri siti greci solcati da qualche rovina, sa che esiste un nesso inscindibile fra i luoghi e gli edifici”…

.. “Il mondo non è mai disabitato, non è mai una tabula rasa su cui disporre abitanti con sovrano arbitrio. Tutti siamo ospiti di qualcuno innanzitutto. Ignorarlo può essere soltanto rovinoso”

  1. Calasso. Il cacciatore celeste.

Con le dovute proporzioni, ci è sempre sembrato che al Poggiolo il nesso tra quel luogo affacciato sulla valle e gli edifici che risalgono a tempi remoti, fosse profondo e inscindibile. Difficile dire se nel nostro lavoro abbiamo usato la necessaria leggerezza e attenzione che richiede la consapevolezza di essere comunque ospiti.

Il Poggiolo era in origine un piccolo borgo contadino autonomo: il pozzo, il forno comune, le stalle e tre edifici principali su diversi livelli del terreno declinante verso la valle, cresciuti nei secoli attraverso aggiunte successive di cui si notano ancora le tracce. I lavori di restauro conservativo iniziano nel 2010 e proseguono per 7 anni. I tre principali edifici vengono restaurati mantenendo le strutture che potevano essere salvate e consolidate. Non c’è stato “accanimento” sui muri ormai irrecuperabili anche per ragioni di stabilità strutturale, al fine di garantire un risultato in linea con le norme  sismiche. Non si è tentato di mascherare i nuovi interventi attraverso  improbabili ricostruzioni con vecchi materiali recuperati. I lavori sotto la direzione dell’ Ing. Riccardo Antoniazzi hanno rispettato queste regole.

La pepita del cieco di Federico Buscaglia

“Probabilmente uscì chiudendo dietro a sè la porta verde,
qualcuno si era alzato a preparargli in fretta un caffè, d’orzo”
F. Guccini- Amerigo

E’ il 15 agosto del 1920 e il paese è  tutto sottosopra, come lo sono tutti i paesi, in questi anni, quando arriva il giorno della festa padronale: chi va e chi viene, parenti e amici, anziani e giovani,

uomini e donne vanno di fretta a testa alta, pavoneggiandosi nel vestito buono. Anche se è caldo, anzi caldissimo, tutti i camini fumano e dal retro delle case si può sentire l’odore di buono del pranzo della festa. Anche Giacomino visita tutte le famiglie di Vigoponzo e a tutte mostra, per l’ennesima volta, l’oggetto che tiene in tasca, accuratamente avvolto in un fazzoletto ben pulito:una luccicante pepita d’oro che lascia ancora a bocca aperta i compaesani che pure l’hanno vista e rivista, ma non si stancano mai di fargliela tirar fuori e farsi raccontare come e dove l’aveva trovata. L’unico a non godere di quei riflessi, intensi sotto il sole di agosto e capaci di suscitare tanti sentimenti, dall’invidia all’ingordigia, alla più casta curiosità, è proprio lui. Giacomino, visto che a ricordo della sua permanenza in Alaska si è riportato a casa, nella sua mai dimenticata bella Italia, non solo l’oro ma anche il buio di chi ha perso la vista. Così, magari con parole più alla buona, in dialetto, mi racconta mia nonna, ogni volta che passiamo al Poggiolo, una piccola frazione di Vigoponzo, davanti alla casa che fu di Giacomino.Tra le tante storie che lei mi racconta, per me la più avvincente e triste è proprio quella di Giacomo Buscaglia, classe 1878, ricco solo di sogni e speranze che il suo baule, nel quale ha riposto con cura i pochi oggetti che possiede, non riesce a contenere mentre si imbarca sul Piroscafo verso la lontana e sconosciuta Alaska.

L’Alaska, quando la descrive ai compaesani con toni da favola nel 1020, somiglia un po’ ai suoi monti, almeno così come se li ricorda e li immagina ora che sa di non poterli più vedere: dopo tanti anni di duro lavoro un’esplosione all’interno della miniera pone fine ai sogni di un suo compagno e compaesano e toglie a Giacomo non solo la vista, ma anche la consolazione di poter piangere. La compagnia mineraria gli pagò il viaggio di ritorno a casa, verso un futuro che gli apparve mesto e oscuro anco più della cecità. Ma la vista non è tutto, a quanto pare, e Giacomo, come mi racconta la nonna riuscì con gli anni a recuperare la sua sete di vita; ripreso possesso del minuscolo podere che aveva lasciato, in cui viveva solo, riusciva sorprendentemente ad essere autonomo; conosceva le piante del suo orto ad una ad una e sapeva sempre quando era il momento di cogliere l’uva perché era matura, al solo tatto. Svolgeva i lavori domestici e quelli agricoli, saliva sugli alberi a potarli e raccogliere la frutta e si faceva accompagnare di tanto in tanto al mercato in cui vendeva i prodotti della sua misera azienda senza lasciarsi imbrogliare sulle monete e sui resti, quesi nelle dita, che pure erano callose come quelle di ogni contadino vero, avesse un paio d’occhi di ricambio. Col tempo imparò a muoversi come se ci vedesse lungo i sentieri e i confini dei suoi campi, dentro i boschi e anzi,più di una volta, fu causa di grosso spavento per chiunque, per qualche uscita notturna dettata da casue impellenti, se lo vedeva sbucare di fronte come un fantasma ad ogni ora, e non è difficile capire la ragione, visto che per lui, il giorno e la notte aveva uguale luce e solo li distingueva il tepore dei raggi solari sulla pelle. Quel che lo rendeva speciale, nella piccola comunità, era soprattutto il suo attaccamento ai più giovani: amava la compagnia e la sua presenza era gradita soprattutto nei luoghi di raduno, le stalle, le cantine in cui le donne lavoravano a maglia, mentre noi uomini, a parte, chiaccheravamo del più e del meno per far passare il tempo in allegria. Le sue storie a mezza strada fra il fantastico e il reale, le sue descrizioni della vita sulla nave e dell’Alaska con i suoi orsi e gli indiani incantavano i più piccoli e costringevano gli anziani a far silenzio, a cogliere nelle strie sempre uguali, ma con infinite varianti, la novità, la singolarità che ogni nuova variazione parta con sé.

Un giorno, incuriosito da quei racconti, sono entrato in quella casa ora parzialmente diroccata per trovare qualche testimonianza dell’esistenza di quest’uomo così particolare. La povertà e la semplicità di quell’umile dimora mi hanno fatto capire quanto fosse difficile la vita a quei tempi, e quanto dovesse essere grande il desiderio di costruirsi una vita migliore. Ma ad essere sincero la domanda che più mi tormenta e mi spinge a tornare in quei luoghi è: -chissà se la pepita è qui nascosta e, se non c’è, che fine avrà fatto?-

Mi capita di rivolgere questa domanda agli anziani di Vigoponzo ma nessuno ha mai risolto questo mistero, in compenso ognuno aggiunge un suo ricordo personale che mi aiuta a ricostruire la vita avventurosa di Giacomo.”